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Cessazione dell'attività del socio e trasferimento delle quote

Caratteri e validità di una particolare clausola statutaria

05 Gennaio 2022

La Corte d’Appello di Torino Sezione specializzata in materia di imprese con Sentenza del 30 giugno 2021 nella causa civile n.660/20 si è pronunciata relativamente alla nullità di una clausola statutaria, confermando la precedente sentenza di primo grado[1].  

Gli attori erano dirigenti di una S.p.a., cui, in forza di un Piano di Incentivazione, volto a fidelizzare i dipendenti e a incentivare il personale dirigenziale al raggiungimento di determinati obiettivi, erano state attribuite delle quote di minoranza di una S.r.l. collegata alla S.p.a. La clausola contestata dello Statuto della S.r.l. prevedeva che qualora i soci di minoranza, persone fisiche, per qualsivoglia motivo, avessero cessato l’attività prestata in favore di società controllate o collegate sarebbero stati obbligati ad offrire in acquisto agli altri soci le loro quote al valore del patrimonio netto corrispondente e non al prezzo di mercato.

In particolare, il Tribunale di Torino aveva ritenuto che tale clausola non fosse affetta da nullità, ma, al contrario, potesse rappresentare una fattispecie di esclusione per giusta causa del socio ex art. 2473 bis c.c, giacché, in relazione alle previsioni del Piano di Incentivazione sottoscritto dai dipendenti, era venuto meno proprio il rapporto lavorativo che aveva consentito agli attori di disporre della quota sociale. Precisava, inoltre, che la nullità della clausola statutaria non pareva ravvisabile neppure nella parte in cui prevedeva che la cessione della quota avvenisse ad un prezzo desunto in percentuale dal valore del patrimonio netto della società e non dal «prezzo di mercato[2]», in quanto le norme in materia di esclusione del socio della S.r.l. non vietano che lo statuto possa stabilire criteri diversi per determinare il valore di liquidazione della partecipazione. Il Tribunale, infatti, qualificò come derogabile la norma di cui all’art. 2473 co. 3 c.c[3] richiamata espressamente dall’art. 2473 bis c.c.

Gli attori proposero appello contestando la sentenza per una serie di motivi, tra cui il fatto che non possa rappresentare giusta causa di esclusione il venir meno di un rapporto di lavoro, anche nel caso di licenziamento illegittimo (subito da tre degli appellanti), e, in secondo luogo, che l’art. 2473 co. 3 c.c sia norma inderogabile e che eventuali deroghe, comunque, non possano essere applicate alla fattispecie dell’esclusione.

La Corte d’Appello di Torino, come detto, ha, anch’essa, ritenuto legittima la clausola dello statuto. Motivando la propria decisione, il Collegio ha precisato che la clausola in esame deve distinguersi da quelle che prevedono l’esclusione del socio in senso tecnico, perché nel caso di specie non è richiesta l’assunzione di una delibera assembleare di esclusione dei soci ai sensi dell’art. 2287 c.c. Per contro, i giudici di seconde cure hanno statuito che la stessa deve qualificarsi come clausola di recesso “imposto/obbligatorio”, trattandosi di un’obbligazione di vendere la quota, cui, peraltro, si possono applicare per analogia gli artt. 2473 c.c. e 2473 bis c.c.[4] In merito, poi, la Corte ha riconosciuto l’esistenza di una giusta causa di esclusione, puntualizzando che la stessa doveva essere rinvenuta nel venir meno della prestazione di quell’attività lavorativa in società collegata che aveva determinato l’attribuzione della partecipazione sociale; restava, dunque, irrilevante il licenziamento e, dunque, i motivi che l’avevano causato.

La Corte si è così espressamente allineata con l’interpretazione più estensiva del requisito di giusta causa, sottolineando come la S.r.l., in virtù della sua tipica elasticità statutaria, possa prevedere quale giusta causa anche la perdita di requisiti soggettivi, nonché altri eventi concernenti la persona del socio o altre circostanze che intacchino l’efficienza organizzativa della posizione sociale dell’escludendo. Nel caso di specie quest’ultima è stata certamente intaccata dal venir meno del rapporto di lavoro, che ha precluso il conseguimento della finalità perseguita di fidelizzazione e motivazione soggettiva del personale. Ai giudici d’appello, poi, non è parsa neppure ravvisabile la nullità della clausola nella parte in cui prevedeva che il rimborso della partecipazione della S.r.l. avvenisse al valore del patrimonio netto. Gli stessi, infatti, hanno preso in considerazione, sempre in forza di analogia, una deroga che è normativamente prevista per le società per azioni all’art. 2437 ter co.4 c.c., in caso di recesso del socio, che recita: “lo statuto può stabilire criteri diversi di determinazione del valore di liquidazione, indicando gli elementi dell’attivo e del passivo del bilancio che possono essere rettificati rispetto ai valori risultanti dal bilancio, unitamente ai criteri di rettifica, nonché altri elementi suscettibili di valutazione patrimoniale da tenere in considerazione.” Dal momento che la normativa relativa alle società di capitali regolate più rigidamente ammette questa ipotesi nel caso di recesso convenzionale, la Corte ha ritenuto che anche nell’ambito delle S.r.l. si debba ammettere questa ipotesi. Lo statuto della S.r.l. può prevedere, quindi, che il controvalore della quota sia determinato secondo criteri stabiliti dallo statuto stesso, sulla base del bilancio e dell’avviamento della società. Di conseguenza, esso può anche essere ricavato dalla percentuale del valore del patrimonio netto corrispondente, risultante dall’ultimo bilancio di esercizio approvato.

In ragione di ciò, e per altri motivi qui non meritevoli di approfondimento, l’appello è stato integralmente respinto.

L’interessante provvedimento offre l’occasione per svolgere qualche riflessione sul tema dell’esclusione del socio dalla società a responsabilità limitata e quindi sulla portata della disposizione di cui all’art. 2473 bis c.c. Tale norma, introdotta in seguito alla riforma delle società di capitali, ha rappresentato un’importante novità per queste società. Da allora, infatti, è possibile inserire nello statuto della S.r.l. cause di esclusione convenzionali, nell’ottica di valorizzare l’elemento personalistico del tipo[5]. L’atto costitutivo può, dunque, prevedere specifiche ipotesi di esclusione per giusta causa: il requisito della specificità è da intendersi nel senso che le cause di esclusione devono essere dettagliate e non generiche[6], il che va ragionevolmente ricondotto all’esigenza di tutelare non solo l’interesse dei soci a conoscere preventivamente le circostanze legittimanti la loro estromissione della società, ma anche l’interesse dei creditori sociali ad essere informati tramite il registro delle imprese in ordine alle circostanze in cui possono veder ridotta la garanzia rappresentata dal patrimonio sociale.

Quanto al requisito di necessaria sussistenza della giusta causa, la sua previsione va collegata alla rilevanza centrale che il socio assume all’interno di una S.r.l. e, dunque, all’interesse che si ha nella conservazione della partecipazione sociale[7]. In proposito, deve dirsi, allora, come sia senz’altro da considerarsi illecita la previsione del c.d. diritto assoluto di allontanamento, non solo sulla base letterale della norma, ma altresì perché una fattispecie del genere potrebbe assecondare comportamenti illegittimi da parte della maggioranza[8]: si vuole evitare, con tale specificazione, che la decisione dell’esclusione possa essere strumentalizzata dalla maggioranza. La specificità delle ipotesi di esclusione, dunque, è condizione sì necessaria, ma non sufficiente per la validità della clausola corrispondente, occorrendo altresì che le suddette ipotesi siano valutabili in termini di giusta causa[9], cioè come suscettibili di non consentire la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto e, dunque, pregiudicare o comunque intralciare lo svolgimento dell’attività comune, e con esso il perseguimento dello scopo sociale. Il requisito della giusta causa viene, però, letto in maniera contrastante tra gli interpreti: c’è chi ritiene che sia da interpretare restrittivamente, nel senso che sarebbero ricomprese nel dettato legislativo dell’art. 2473 bis c.c. solo le ipotesi riconducibili all’inadempimento dei doveri sociali o impossibilità sopravvenuta del loro adempimento.

D’altra parte, c’è chi sostiene che tale requisito possa essere integrato anche dalla perdita di particolari requisiti soggettivi[10] .

Nel loro argomentare, gli interpreti sono soliti richiamarsi a quanto affermato in merito all’ipotesi di recesso del socio nelle società di persone (art. 2285, co. 2 c.c.). In questo caso si tende ad equiparare la giusta causa con la violazione dei doveri di fedeltà, lealtà, correttezza e diligenza[11]. La mera trasposizione di siffatta assunzione, però, finirebbe per negare che nel parametro di giusta causa siano riconducibili anche le vicende che attengono alla persona del socio e questo andrebbe a contrastare con quelli che sono i motivi di esclusione previsti per le medesime società di persone, dove le fattispecie legittimanti possono anche prescindere da un inadempimento o da una violazione. Per tali motivi si è portati a leggere il requisito nel suo senso più ampio: è ammissibile la previsione di cause relative ad altre circostanze oltre all’inadempimento, come la perdita di una certa qualità, condizione o qualifica professionale[12].

Sotto quest’ultimo profilo, l’interpretazione estensiva del concetto di giusta causa potrebbe essere giustificata anche per la sua coerenza con l’ipotesi di esclusione, statutariamente prevista, in forza di un disegno di personalizzazione della società, rivelato, ad esempio, dalla presenza nell’atto costitutivo di clausole che subordino il trasferimento delle partecipazioni al godimento da parte del cessionario di determinati requisiti (come potrebbe essere la sussistenza del rapporto lavorativo per il caso della sentenza ivi commentata): il venir meno di tali requisiti in capo al socio ben potrebbe così giustificare la sua esclusione, esattamente come la loro assenza in capo al cessionario giustifica il diniego del gradimento all’acquisto della partecipazione da parte del medesimo[13]. Appare, ancora, conforme al disposto dell’art. 2473 bis c.c. la previsione, contenuta nell’atto costitutivo di una S.r.l., di esclusione del socio per inattività, all’interno dell’organizzazione aziendale, per almeno 180 giorni nell’arco di un esercizio sociale[14].

Nel caso di specie, la sussistenza del rapporto lavorativo rispondeva alla logica del Piano di Incentivazione, volto al perseguimento di determinati obiettivi della società S.p.a., in forza del quale gli attori si erano visti attribuire delle quote di minoranze, altrimenti non acquistabili. In questo senso, il venir meno del rapporto lavorativo, potrebbe rientrare nella perdita dei requisiti soggettivi e integrare, dunque, il requisito della giusta causa di esclusione statutariamente prevista.

Quanto, infine, al profilo della liquidazione, l’art. 2473 bis c.c. stabilisce che, qualora lo statuto preveda una o più cause di esclusione del socio, si applicano le disposizioni dell’art. 2473 c.c., esclusa la possibilità del rimborso della partecipazione mediante riduzione del capitale. Si fa, dunque, riferimento alla norma in materia di recesso, che stabilisce al comma terzo il diritto di ottenere il rimborso della propria partecipazione in proporzione al patrimonio sociale, tenendo conto del valore di mercato della partecipazione al momento dell’esclusione. La determinazione del valore della quota societaria può essere operata anche da un terzo arbitratore, il quale sarà vincolato al criterio legale del valore di mercato[15].

La clausola contestata nel caso di specie, invero, prevedeva espressamente che la cessione della quota avvenisse ad un prezzo calcolato in percentuale dal valore del patrimonio netto e non dal prezzo di mercato. Si pone, allora, il dubbio se la disposizione di cui all’art. 2473 c.c. sia norma inderogabile, con conseguente nullità della clausola.

Sul punto, è controverso se la comunemente affermata inderogabilità in peius dei criteri di liquidazione nelle ipotesi di recesso legale sia applicabile anche alle ipotesi di esclusione di cui all’art. 2473 bis c.c. La tesi dell’inderogabilità è fondata su un principio di tutela del singolo nei confronti del gruppo e, dunque, di fronte ad una sostanziale espropriazione forzosa della partecipazione, nel caso dell’esclusione per giusta causa, secondo parte di dottrina e giurisprudenza, sarebbe ravvisabile l’applicabilità della tesi anche a queste ipotesi[16]. C’è chi ritiene, poi, che non sia possibile consentire che sia lo statuto a stabilire la liquidazione al valore nominale o contabile, a prescindere del rinvio alla norma relativa al recesso convenzionale, poiché il dato normativo non permetterebbe di danneggiare, a livello patrimoniale, il socio escluso[17]. Se la previsione del requisito della specificità e della giusta causa sono posti nell’ottica di evitare un comportamento illegittimo da parte della maggioranza, l’indisponibilità in peius dei criteri stabiliti dall’art. 2473 c.c. costituisce un ulteriore argine ai possibili abusi della maggioranza ed allo stesso utilizzo distorto dell’esclusione.

Secondo l’opinione di altra parte di dottrina e giurisprudenza, cui i Giudici torinesi hanno evidentemente aderito, deve ammettersi la derogabilità da parte dello statuto di tale disposizione. In particolare, l’utilizzo di criteri peggiorativi sarebbe giustificato dal carattere convenzionale delle ipotesi di esclusione, esattamente come avviene per le ipotesi di recesso statutarie.

 

 

[1] Corte d’Appello di Torino, 660/2020, 30 giugno 2021, in Leggi d’Italia.

 

[2] Formula molto criticata nell’ambito delle S.r.l. che assume il significato di valore effettivo.

 

[3] L’art. 2473 co.3 c.c. così dispone: “I soci che recedono dalla società hanno diritto di ottenere il rimborso della propria partecipazione in proporzione del patrimonio sociale. Esso a tal fine è determinato tenendo conto del suo valore di mercato al momento della dichiarazione di recesso; in caso di disaccordo la determinazione è compiuta tramite relazione giurata di un esperto nominato dal tribunale, che provvede anche sulle spese, su istanza della parte più diligente; si applica in tal caso il primo comma dell'articolo 1349.”

 

[4] Si riportano testualmente le parole della Corte: “Si tratta, invece, di un’obbligazione di vendere la quota qualificabile quale obbligo di recesso (recesso vincolato-obbligatorio) che si distingue dall’esclusione del socio in senso tecnico, perché qui non si dà corso alla delibera di esclusione assembleare ai sensi dell’art. 2287c.c. (analogicamente applicabile alla S.r.l.) avente efficacia decorsi trenta giorni dalla comunicazione in assenza di opposizione, ma alla quale obbligazione a vendere si applicano, comunque, analogicamente, gli stessi art. 2473 bis e 2473 c.c., giacché siamo di fronte, in ogni caso, ad un recesso imposto.”

[5]In questo senso, v. GHIONNI CRIVELLI VISCONTI P., L’esclusione in Le società a responsabilità limitata, a cura di C. Ibba e G. Marasà, Milano, 2020, vol. I, p. 1117.

[6] Così GHIONNI CRIVELLI VISCONTI P., L’esclusione, cit., p.1130.

[7] ZANARONE G., Della società a responsabilità limitata, in Il Codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger e continuato da F. Busnelli, Milano, 2010, p. 858.

[8] GHIONNI CRIVELLI VISCONTI P., L’esclusione, cit., p.1128.

[9] Trib. Napoli Sez. Spec. Imprese, 08 febbraio 2020, n. 25774, in De Jure.

[10] Così ZANARONE G., Della società a responsabilità limitata, cit., p. 863.

[11] GHIONNI CRIVELLI VISCONTI P., L’esclusione, cit., p. 1132.

[12] GHIONNI CRIVELLI VISCONTI P., L’esclusione, cit., p. 1135.

 

[13] ZANARONE G., Della società a responsabilità limitata, cit., p. 865.

[14] Trib. Bologna, 11 aprile 2017, n. 621, in De Jure.

 

[15] Trib. Firenze Sez. Spec. Imprese, 05 ottobre 2021, n. 2480, in De Jure.

[16] FERRARI M., S.r.l.: può integrare giusta causa di esclusione la cessazione del rapporto di lavoro del socio, in Il Quotidiano Giuridico, 2021.

 

[17] GHIONNI CRIVELLI VISCONTI P., L’esclusione, cit., p. 1157.

(studi condotti con l'inetrevento della stagista Veronica Schiavo)

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