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Debiti tributari e rinuncia all’eredità

Una recente sentenza della Corte di Cassazione porta a riconsiderare alcuni profili connessi all’efficacia retroattiva della rinuncia all’eredità a fronte di pretese dell’Erario

10 Novembre 2022

La sezione tributaria della Corte di Cassazione, in una recente sentenza ( Cassazione civile sez. trib., 12/04/2022, n.11832) ha enunciato il seguente principio: “In tema di imposta di successione, il chiamato alla eredità, che, dopo aver presentato la denuncia di successione, ricevuto l'avviso di accertamento dell'imposta ometta di impugnarlo, determinandone la definitività, non è tenuto al pagamento dell'imposta ove successivamente rinunci all'eredità, in quanto l'efficacia retroattiva della rinuncia, legittimamente esercitata, determina il venir meno con effetto retroattivo anche del presupposto impositivo.".

La lettura pare non offrire particolari spunti di riflessione; semmai bisognerebbe chiedersi perché mai l’Agenzia delle Entrate abbia voluto protrarre il contenzioso sino al grado di legittimità, costringendo il contribuente a difendersi anche in tale sede, per vedersi opporre una pronuncia facilmente prevedibile.

Pare quasi ovvio affermare che non può essere chiamato a pagare la tassa di successione chi, per effetto di rinuncia, non possa essere considerato erede.

Non può, poi, essere messo in dubbio che la qualità di erede si acquisti solo in forza di accettazione, espressa o tacita.

Le argomentazioni in motivazione della qui commentata sentenza e i rinvii giurisprudenziali in essa contenuti sono più che sufficienti a sostenere tali tesi.

È, ancora, principio consolidato e difficilmente contestabile che la sola presentazione della denuncia di successione   non possa essere considerata atto di accettazione tacita (come ancora recentemente ribadito in Cassazione civile sez. trib., 22/11/2021, n.35813)

Il disposto del primo comma dell’art. 521 c.c. non pare, infine, dare adito ad interpretazioni che vadano nel senso di negare il pieno effetto retroattivo della rinuncia.

Quanto detto vale non solo per il debito tributario relativo al pagamento della tassa di successione, che è proprio dell’erede, ma anche per i debiti tributari del decuius, in relazione ai quali l’erede stesso diviene debitore (o, in caso di pluralità di eredi, condebitore pro quota, in applicazione della disciplina codicistica -cfr. ad esempio, Cassazione civile sez. trib., 09/04/2020, n.7768; Cassazione civile sez. trib., 09/04/2020, n.7768).

Si può, dunque, affermare che l’erede non ha nessun motivo di affrettarsi a provvedere alla formale dichiarazione di rinuncia per eventualmente opporla, se del caso, all’Erario. A stretto rigore, anzi, potrebbe evitare di sostenere gli oneri, anche economici, connessi a tale atto, perché ha dieci anni di tempo per compierlo (e, decorso tale periodo, non può essere considerato erede, prescrivendosi il diritto all’accettazione ex art. 480 c.c.).

Costituisce eccezione a tale regola il caso del chiamato che sia in possesso di beni ereditari, per il quale si impone, a norma dell’art. 485 c.c., di fare, entro tre mesi dalla data di apertura della successione, l’inventario dei beni ereditari (pena l’acquisizione di diritto della qualità di erede puro e semplice), riservandosi, nei quaranta giorni successivi, di accettarla, anche con beneficio di inventario, o di rinunciarvi. In merito si può aggiungere che è controversa in giurisprudenza la legittimità di una rinuncia fatta direttamente, senza fare preventivamente l’inventario: nel passato la tesi prevalente era quella affermativa, ma una recente sentenza (Cassazione civile sez. VI, 23/11/2021, n.36080) pare andare di diverso avviso.

Ciò detto, qualora il chiamato all’eredità, non in possesso dei beni, fosse raggiunto da notifica di atto impositivo o di una cartella di pagamento (successiva, ad esempio, ad accertamento, effettuato nei confronti del de cuius e divenuto definitivo) anche solo in forza di notifica legittimamente indirizzata impersonalmente agli eredi presso l’ultimo domicilio del defunto (cfr. Cassazione civile sez. trib., 22/05/2019, n.13760), avrebbe due alternative.

Egli potrebbe opporsi ad un eventuale atto di esecuzione, invocando il principio secondo il quale, come già accennato  “Il chiamato all'eredità, il quale vi abbia validamente rinunciato, non risponde dei debiti tributari del de cuius, anche nel periodo intercorrente tra l'apertura della successione e la rinuncia, posto che la relativa dichiarazione di non accettazione ha effetto immediato ed efficacia ex tunc, con la conseguenza che tale soggetto possa essere considerato come mai chiamato alla successione.” (cfr. È sempre opponibile al Fisco anche ex tunc la rinuncia all'eredità.

In alternativa, però, lo stesso potrebbe ritenere utile impugnare l’atto tributario per eccepire da subito la propria carenza di legittimazione e far valere in tal sede una rinuncia nel frattempo formalizzata, evitando così anche che l’atto tributario divenga definitivo.

Tale comportamento sarebbe utile ed efficace e non comporterebbe il rischio di vedersi opporre un’intervenuta accettazione tacita in forza della proposizione dell’impugnazione (come riaffermato in Cassazione civile sez. trib., 29/10/2020, n.23989).

Va, però, esaminata anche una diversa ipotesi.

I chiamati all’eredità potrebbero rilevare che l’atto impositivo è illegittimo e/o che la cartella comprende fra gli importi intimati anche alcuni che non possono essere esatti nei confronti degli eredi (come le sanzioni ex art. articolo 8 del Dlgs 472/1997) e riflettere sull’opportunità di ricorrere avverso ad essi, mentre decidono se rinunciare o meno all’eredità.

In tale situazione ciò che non deve essere assolutamente fatto è impugnare l’atto notificato esclusivamente censurando il merito: la giurisprudenza è unanime nel considerare tale comportamento espressione di accettazione tacita (cfr. ancora, ad esempio, Cass. n. 23989/2020); a nulla varrebbe, poi, una successiva rinuncia, perché l’accettazione, espressa o tacita che sia, è irrevocabile.

Va, invece, valutato se opporre la propria qualità di meri chiamati all’eredità e, contemporaneamente, contestare l’imposizione o l’intimazione di pagamento.

Da un lato, bisogna considerare che, per giurisprudenza risalente (Cass. sez. 2, 20/03/1976 n. 1021), non solo gli atti dispositivi, ma anche gli atti di gestione, possono dare luogo ad accettazione tacita dell'eredità, secondo l'accertamento compiuto caso per caso dal giudice di merito, in considerazione della peculiarità di ogni singola fattispecie e tenendo conto di molteplici fattori, tra cui quelli della natura ed importanza, nonché della finalità degli atti di gestione compiuti dal chiamato.

Dall’altro, non si può ignorare che l’art. 460, comma 2 c.c. riconosce ai chiamati all’eredità il potere di “compiere atti conservativi, di vigilanza e di amministrazione temporanea, e può farsi autorizzare dall'autorità giudiziaria a vendere i beni che non si possono conservare o la cui conservazione importa grave dispendio”. L’esercizio di tale potere non provoca la mutazione dello status da chiamato a erede (“non possono essere ritenuti atti di accettazione tacita quelli di natura meramente conservativa che il chiamato può compiere anche prima dell'accettazione, ex art. 460 c.c.”; cfr. Cassazione civile sez. II, 28/10/2020, n.23737).

Si può, allora, ipotizzare che lo stesso ritenga opportuno depositare ricorso al fine di preservare il  patrimonio delato nella sua interezza.

Se ne deve concludere che, se si ritenesse opportuno percorrere la strada di un’impugnazione anche nel merito, il chiamato dovrebbe curare, in primo luogo, di opporre tale sua qualità e, in secondo luogo, di esplicitare inequivocabilmente la natura conservativa dell’impugnazione nel merito. Un ricorso così impostato potrebbe ottenere l’effetto di far annullare l’atto impositivo e/o limitare l’importo esigibile in forza della cartella e, nel contempo, consentire di evitare una declaratoria di avvenuta accettazione tacita. Tale conclusione pare sorretta dalla motivazione della già citata sentenza n. 23989/2020 della Cassazione.

 

 

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